Foto: Laura Lewis
Nathan Fake è stato un nome molto presente in una certa scena elettronica nel corso dei primi anni del nuovo millennio. Il suo sodalizio con James Holden e la sua trilogia su Border Community ancora oggi è argomento di cui discutere quando si parla di cosa salvare musicalmente di quegli anni. Eppure il producer britannico ha vissuto molti cambiamenti della scena, l’esplorazione di sonorità differenti da quelle che lo hanno contraddistinto al debutto e una pandemia globale che sembra essere stata una “sliding door” per molti artisti attorno al mondo della musica eletttronica.
In occasione della sua esibizione il 18 novembre al Monk di Roma per la settima edizione di Manifesto, siamo riusciti a fargli qualche domanda.
Non sei più il giovane esordiente osservato da tutti e destinato ad essere la “next big thing” della crew Border Community. Che ricordi hai di quel periodo?
Mi approcciai a quel mondo attorno al 2003, con l’incoscienza di un giovane e un picco creativo che però soffriva di molto disordine. Il mondo dei club era diverso, più piccolo, e c’era meno competizione per raggiungere determinati spot. Ad essere completamente onesti non c’era nemmeno la concezione di spot più o meno importanti. Si produceva e ci si esibiva con la speranza di poterne fare un lavoro senza ambizioni ulteriori, o almeno per me è stato così.
Con quali artisti riempivi la tua giornata di ascolti?
Non è un mistero che io abbia consumato ogni singolo disco esistente di Aphex Twin e Orbital fino allo sfinimento. Sono state le loro divagazioni, la loro capacità di plasmare un certo tipo di musica creando dei veri e propri colpi di scena a rapirmi sin da giovane. A loro sicuramente devo la testardaggine che ho avuto da giovane nel cercare suoni diversi e soluzioni poco convenzionali dal punto di vista stilistico.
Foto: Laura Lewis
E se oggi dovessi menzionare artisti capaci di avere su di te lo stesso effetto?
Non ce ne sono molti a dire il vero. Actress sicuramente mi colpisce per la sua idea di suono, di profondità, di narrativa ed estetica. C’è un fil rouge in tutto quello che fa e mi affascina molto questa visione.
Fuori dal mondo della musica elettronica invece? Cosa accende la tua curiosità come ascoltatore?
Ascolto i My Bloody Valentine o i Radiohead. Anche l’ambient è abbastanza presente nei miei ascolti quotidiani. Se invece dovessi suggerirti qualche disco da avere sempre pronto per l’ascolto direi ‘Imagine This Is A High Space Of All Possibilities’ di James Holden, ‘Tilt’ di Lukid e ‘Valley Of The Spirits” di Chimera.
Sono passati venti anni da quel debutto. Nathan Fake oggi che artista è?
Sicuramente un artista più indulgente con sé stesso. Ricordo il perfezionismo che avevo e di cui soffrivo quando ero più giovane. Se non mi fossi lasciato andare penso che avrei rischiato seriamente di non pubblicare musica. Ero sempre alla ricerca degli elementi perfetti in ogni aspetto delle mie produzioni. Con gli anni ho imparato a lasciar andare nel tentativo di far prevalere le emozioni e raccontare qualcosa di interessante senza fermarmi all’esercizio di stile.
E come persona come sei oggi?
Sono un uomo di quarant’anni, ancora critico con sé stesso, ma nella giusta misura. Sono più consapevole del mondo che mi circonda e del music business e delle sue evoluzioni. Una cosa che non è cambiata è il rapporto con i trend e con le mode che è sempre stato abbastanza distaccato. Non ho mai sposato con grande interesse le tendenze del momento. Mi piace osservarle per capire in che direzione sta andando la società in un determinato ambito, ma non sono interessato a seguirle per comodità lavorativa.
E tutto questo si riflette nella tua ultima fatica in studio, ‘Crystal Vision’?
In parte, ma penso che ‘Crystal Vision’ sia stato fortemente influenzato da come ho vissuto personalmente il periodo del lockdown, durante la pandemia di Covid. Ho smesso improvvisamente di viaggiare e lavorare ritrovandomi costretto ad una vita sedentaria, credo di aver sofferto di depressione o comunque di essere stato molto giù di morale inizialmente. L’album ne è stato ovviamente influenzato avendo delle sfaccettature introspettive e malinconiche. Non credo che la tristezza sia un brutto sentimento, è solo uno dei tanti sentimenti umani che si possono raccontare con la musica.
“Sono un uomo di quarant’anni, ancora critico con sé stesso, ma nella giusta misura. Sono più consapevole del mondo che mi circonda, del music business e delle sue evoluzioni.”
Ora che sei nuovamente libero, in un mondo tornato, quasi, alla normalità e con un nuovo album uscito da poco su cosa ti concentrerai?
Farò un lungo tour di promozione dell’album. Oltre a Roma lo porterò anche a Berlino, Londra e Lisbona e voglio continuare almeno per un anno, recuperando tutto il tempo on the road che è stato perso a causa della pandemia. Non aspettatevi che torni in studio a breve perché ho bisogno di stare a contatto con il pubblico e di portare la mia musica in giro per il mondo.
18.11.2023