Foto: Emilio Tini
Il percorso di Dario Faini, per tutti Dardust, è un viaggio entusiasmante che ad ogni tappa rivela meraviglie. Un pianista e compositore che si è dato all’elettronica, ci ha stupito forgiando un suono che da outisder l’ha portato a divntare una colonna del pop italiano, dove nella seconda metà degli anni ’10 era davvero onnipresente firmando una marea di successi come autore e producer; poi ancora come curatore di progetti e con il proseguimento di un percorso artistico che nei suoi album si è fatto sempre più ricco, opulento, fino al culmine del precedente ‘Duality’ che ha segnato un punto e a capo.
Oggi Dardust riparte da una nuova tappa, una pagina nuova che da Parigi – nell’intervista scoprirete il perché – si dipinge di bianco e di nero, con un nuovo lavoro, ‘Urban Impressionism’, dove l’artista torna all’essenza minimale del pianoforte, con un solido baricentro melodico e screziature elettroniche mai ingombranti ma che fanno la diffrenza, nei glitch come nel mix dei pezzi, fase altrettanto creativa nella musica del 21esimo secolo. Tra l’estetica del brutalismo e il coragio di essere, costantemente, lontano da una zona di comfort che sarebbe troppo facile da mantenere.
Nella nostra ultima chiacchierata insieme avevi detto che ‘Duality’, disco e tour, sarebbero stati la fine di una parte della tua carriera, il punto alla fine di un lungo percorso. Questo significa che ‘Urban Impressionism’ è invece l’inizio di una nuova fase. È andata – e sta andando – così?
Sì, è andata proprio così. Con ‘Duality’ ho chiuso un capitolo e anzi, proprio un cerchio di una fase della mia vita artistica composta di diversi capitoli; mi sono dileguato per un po’, mi sono allontanato anche dalle produzioni per altri artisti, cosa di cui avevamo parlato tempo fa insieme. Ho deciso che dopo quell’album e quel tour avrei dovuto ritrovarmi a una sorta di un punto di inizio per ripartire verso nuove strade e affrontare un nuovo percorso.
E questo nuovo percorso è segnato da quello che chiami “impressionismo urbano”?
Il titolo dell’album, ‘Urban Impressionism’, è molto esplicativo in realtà, perché come sempre per lavorare al disco mi sono spostato in un luogo diverso da casa, in particolare sono stato a Parigi, ma non nella Parigi degli Impressionisti quanto in certi quartieri un po’ periferici ma dove nutrivo un forte interesse per le architetture brutaliste che li caratterizzano.
L’impressionismo ce l’hai messo tu.
Esatto, ho messo le mie emozioni nei brani che stavo scrivendo ispirato da questi luoghi che mi hanno ricordato il borgo fuori Ascoli Piceno da cui vengo, cioè la periferia di una periferia. Non è un caso che io abbia sempre usato molto colore per rappresentare la mia musica, ‘Duality’ ad esempio era un trionfo di colori sul palco, ma anche i tour precedenti avevano un impatto visivo molto forte, cromaticamente parlando. Il motivo è proprio il bianco e nero della periferia, io ho usato tantissimo la mia immaginazione per creare mondi diversi da quelli che vedevo intorno a me.
E ora che metaforicamente hai ritrovato luoghi che sono come casa tua, hai ritrovato il bianco e nero.
Proprio così, mi è sembrato naturale e in qualche modo mi ha fatto sentire a casa tutto questo brutalismo nei palazzi e nelle costruzioni che vedevo, poi chiaramente c’è anche il discorso che facevo prima. Se nel corso degli anni, dei dischi, dei concerti, mi sono allontanato con i colori, adesso che ho chiuso una fase della carriera e ne ho aperta un’altra, tornare alle radici, al bianco e nero, ci sta. ‘Urban Impressionism’ significa proprio questo, l’emozione dell’impressionismo, del gesto artistico, in un contesto fortemente urbano. È il disco in cui mi metto più a nudo.
Mi spieghi come ti è venuto proprio il titolo ‘Urban Impressionism’, con questo dualismo, quasi un ossimoro?
Ci ho pensato perché spesso la musica pianistica contemporanea è associata a scenari naturalistici, al chill out da tappezzeria, mentre invece noi viviamo perlopiù nelle metropoli, siamo molto urbanizzati. Ma se ci pensi questo ambiente non viene mai sonorizzato nel mondo classico, mi piaceva portare il pianoforte in questa idea di paesaggio urbano. La parte visiva per me è imprescindibile, per cui ecco l’”impressionismo urbano”.
In effetti quando pensiamo a “sonorizzare la città” il riferimento è sempre all’elettronica spinta, a me ad esempio viene in mente subito ‘Inner City Life’ di Goldie, un brano jungle, che è pure vecchio, dl 1995. So che è uno stereotipo.
Sì, oppure la ambient. Ma mai la classica. E invece perché no? Voglio scardinare il luogo comune della classica nel panorama bucolico.
È molto interessante anche il tema ricorrente della “fuga”, nel tuo percorso compositivo. Ricordo la nostra prima intervista, anni fa, dove eri in Islanda per un tuo disco. E ogni volta te ne vai in una città o in un luogo lontano dall’Italia per scrivere i tuoi album. Qual è l’esigenza che ti porta altrove?
Beh il primo disco era stato concepito a Berlino, poi sono stato in Islanda, in Scozia, in Giappone, questo nuovo lavoro è nato a Parigi. Ma proprio perché avevo già l’idea dell’impressionismo urbano, ed era molto chiaro il percorso nella mia testa. Anche se poi volendo guardare, è il mio disco più “italiano”, per la melodia, i temi trattati, un’estetica parigina ma molto italiano.
Non sei mai andato “al caldo” per scrivere i tuoi dischi. C’è una ragione?
È vero! No, non c’è una ragione precisa, anzi non escludo che in futuro ci andrò, ad esempio in Sudamerica c’è tutto il movimento Tropicalia che è interessante, vorrei esplorarlo.
‘Duality’ dal vivo mi ha stupito non solo per l’accuratezza della messa in scena – che anzi conoscendoti mi aspettavo – quanto per la reazione del pubblico, molto coinvolto, come fossimo a un concerto pop. Te l’aspettavi?
Speravo di sì, perché uno dei miei obiettivi è portare la classica ad un pubblico ampio senza tradirne l’estetica ma contemporaneamente mettendo in scena un allestimento molto più “pop”, scenografico, colorato, era importante per me far convivere queste due anime sul palco come faccio convivere classica ed elettronica. Poi ci sono stati dei momenti che avevo proprio studiato per avere un certo tipo di risposta, ma non è certo scontato che succeda.
E il prossimo tour?
Sarà un tour che non ho mai fatto, dopo i colori esagerati sarà in bianco e nero, rispecchierà questo nuovo inizio e questo ritrovato minimalismo. E probabilmente parlerò, parlerò tanto. Altra cosa che non ho mai fatto.
A sancire il nuovo capitolo.
Assolutamente, mi piace proprio questa idea di ripartire.
Ci vuole coraggio a cambiare direzione in modo così netto, no?
Il rischio c’è, ma io credo di aver coltivato un pubblico curioso che mi vorrà seguire invece di cercare il già visto e sentito. D’altronde la musica è proprio ricerca di novità costante, una sfida anche estetica, sennò non siamo artisti.
Invece il capitolo della produzione e della scrittura per altri, come la grande stagione delle tue hit pop, è conclusa?
Ma no, non vorrei dire che è chiusa. Ho sentito, ne avevamo già parlato, di dover centellinare quel tipo di impegno. Sia perché per qualche anno ero davvero dappertutto, sia perché dovevo concentrarmi sulla mia musica. Poi succede che magari l’unico pezzo che decido di fare quell’anno è ‘Cenere’ di Lazza, che esplode letteralmente, o ‘La Noia’ di Angelina Mango, che vince Sanremo, e allora paradossalmente pare che io sia più presente che mai nella scena pop, ma invece succede per caso, e se vai a vedere non ho prodotto altro.
Va beh, dai, “succede per caso” non lo pensi davvero…
Ma come fai a saperlo?
Dai, onestamente.
Da un lato mi sento mi sento rassicurato, la sensazione è “ok, non ho perso il tocco”. Dall’altra la vivo meglio di prima perché non è che devo dimostrare nulla, sono felice di lavorare con artisti e su pezzi che mi intrigano e se diventano successi sono felice, chiaramente. Ma non sento il bisogno di dovermi imporre in quel contesto, sento l’esigenza di portare qualcosa alle persone con cui lavoro. Un senso di responsabilità. Poi se serve la mia fama da produttore pop per far scoprire il Dardust artista, ben venga.
Il dj lo faresti mai?
Ho fatto degli “electronic set”, non proprio dei dj set. Io non mi sento a mio agio se non ho manopole da girare, come sui synth, o tastiere etc. Per cui forse potrei farla più semplice però sì, non ho mai approcciato davvero l’idea del dj set.
Sei felice? Sei eccitato da questa nuova avventura che sta partendo?
Sì, sono felice, più che eccitato sono sereno, non mi faccio mai grandi aspettative perché mi sento sempre fuori contesto, faccio dischi pianistici… non penso mai che si possa tradurre in un successo ampio per il pubblico. Poi quando accade sono felice. Ma sono comunque felice di fare ciò che amo, potrei fare altre scelte ma va bene così.
Tipo?
Ma non so, un producer album con tanti ospiti e poi le date giganti, il Forum con un sacco di artisti sul palco.
Non avrebbe senso, dai.
Come non avrebbe senso? È quello che si aspettano tutti!
Proprio per quello non avrebbe senso, tu sei… altro.
Ma sarebbe bello, no?
Secondo me se lo fa uno come te, o Mace – che l’ha appena fatto – sì, è bello. Ma perché a monte c’è una prospettiva musicale ampia e ricca, con mille sfaccettature. Se lo fa la maggior parte dei produttori, a me pare sempre la raccolta delle figurine, ed è noioso.
Va beh, comunque penso che non lo farò mai. O forse sì. Chissà. Mai dire mai…
14.11.2024