Un’immagine del documentario
Ho sempre pensato che Avicii fosse un genio. Un genio vero, non per dire. Non sono mai stato il più grande fan dell’EDM e soprattutto in quegli anni di sbornia collettiva, io non digerivo benissimo l’eccesso di synth muscolosi e di melodie spesso pacchiane unite a drop di una banalità infantile. C’erano le eccezioni, naturalmente, e sono perlopiù i nomi rimasti nel tempo e ancora oggi grandi o grandissimi. E poi c’era Avicii. Che giocava un altro sport. Perché i suoi brani erano (sono) super, iper pop, ma di una scrittura limpida, capace di arrivare al punto, al cuore, di conquistare chiunque senza mai essere stucchevoli. ‘Levels’, naturalmente, con la sua melodia senza tempo, quei layer di armonizzazioni e quel suono che ha cambiato tutta la musica. ‘Wake Me Up’ con Aloe Blacc, pare inutile dirlo. ‘Without You’ con Sandro Cavazza. Ma pure episodi, permettetemi di dire, “minori” (ripeto, si fa per dire…) come ‘Hey Brother’, ‘Waiting For Love’, ‘Addicited To You’, per citarne qualcuno. Si dice che una canzone è davvero forte se suona bene, credibile in un arrangiamento stripped down, ovvero spogliato di orpelli, ridotto al minimo, diciamo voce e chitarra, voce e piano, solo l’essenziale che serve per creare un accompagnamento di accordi e, volendo, armonico. Ebbene, provate a suonare in questa modalità una delle canzoni che ho citato poco fa e ditemi non suonano tutte, comunque, perfette.
L’EDM nella musia di Avicii è stata un vestito, un abito che rispecchiava le mode del momento. Tim Bergling, a differenza della maggioranza dei ragazzi che hanno fatto fortuna con la dance in quegli anni lì (ma anche prima e dopo) avrebbe avuto lo stesso stratosferico successo in qualsiasi altra epoca, nel rock come nel pop come nella classica o nel soul o nella disco o nella trap. Perché aveva quel raro dono del cielo di possedere la musica dentro di sé. Di saper scrivere, comporre, produrre e arrangiare con una semplicità disarmante brani che alla maggior parte dei musicisti e degli autori di canzoni non vengono in intere carriere. Ma parlo di gente brava, non dei dilettanti della domenica. Poi certo, il periodo storico ne ha fatto un ragazzo prodigio e anche un bel visto da copertina, una social star e un protagonista in prima linea, un eroe della consolle per milioni di ragazze e ragazzi nel momento giusto della storia. O forse, nel momento più sbagliato. Ne ha fatto un frontman e forse lui si è accorto troppo tardi di volerlo essere. Ed è questo che racconta I’m Tim, nuovo documentario sulla vita e sulla morte della vera superstar dell’EDM degli anni ’10, disponibile su Netflix dall’inizio del 2025.
Diretto da Henrik Burman, il film è prodotto da Björn Tjärnberg e realizzato con il consenso e il concreto coinvolgimento della famiglia Bergling: il padre Klas e la madre Anki Liden non sono soltanto presenti tra le persone intervistate ma hanno fornito i filmati d’archivio con cui buona parte del film è composta e montata. Filmati che sono una testimonianza straordinaria e preziosa per ricostruire da una prospettiva vicinissima e da un punto di vista privilegiato la vita di Tim Bergling prima, durante, e dopo la trasformazione in una superstar di proporzioni planetarie. Inoltre, il voice over è per gran parte della durata del documentario proprio di Avicii, elemento che rende ancora più suggestivo, ma anche triste e un poco inquientante, l’opera. I colleghi presenti invece non sono molti, se parliamo di interviste realizzate ad hoc e non di materiali d’archivio, ma di un certo peso: Chris Martin, David Guetta, Nile Rodgers, e i collaboratori del producer come Aloe Blacc, Dan Tyminski, alcuni discografici con cui Avicii aveva lavorato (su tutti Per Sundin, presidente di Universal nord Europa ai tempi) e il discusso manager dell’artista, Ash Pournouri.
I’m Tim si apre con queste parole, “sono Tim”, pronunciate dallo stesso Avicii alla domanda: chi sei? Poi, si parte dall’inizio, letteralmente, con tenerissime immagini dell’artista appena nato, in ospedale, e poi la sua infanzia e via via l’adolescenza e la scoperta della musica da bambino che diventa una passione da ragazzo e presto, appena svoltato il diploma, il suo lavoro. Lo racconta in particolare uno degli amici di sempre, Filip “Philgood” Åkesson, e a stretto giro Arash “Ash” Pournouri, praticamente da subito manager e poi motore dei quell’auto da corsa lanciata supersonica nel music biz dal nome Tim Bergling, poi Tim Berg, e finalmente Avicii.
La trama la conosciamo, e purtroppo i plot twist sono solo negativi: il genietto che scopre di essere davvero un genio, il successo a passi da gigante, la fama internazionale, trovarsi a 22 anni a chiudere Ultra Music Festival a Miami venerato come un dio, annunciato e con la partecipazione di Madonna. Il botto definitivo, internazional-popolare, di ‘Wake Me Up’, l’alcool come sedativo per l’anima, gli amici di sempre che passano il testimone a personaggi discutibili, le ragazze “due alla volta”, le star mondiali che si mettono in coda per una produzione, i ritmi esagerati per chiunque. La decisione di mollare tutto per ritrovare se stesso, la decisione tragica di non voler più reggere il peso di una vita irrimediabilmente infelice.
Il poster del documentario
Il film della vita di Avicii non ha un finale che purtroppo si può cambiare, e quel 20 aprile 2018 ce lo ricordiamo tutti. Quello che si poteva essere diverso è il documentario I’m Tim, che nonostante le premesse, i rari materiali resi disponibili, i genitori che si prestano a raccontare cose molto personali e dolorose, gli amici e i collaboratori – non era scontato coinvolgere Pournouri – non riesce ad aggiungere quasi nulla a ciò che sapevamo. Inoltre, a tratti rischia di apparire un poco morboso. Quel che è peggio, è che a livello cinematografico è un susseguirsi di cliché di sceneggiatura, di montaggio e di colonna sonora: da questo punto di vista sembra un documentario pensato e assemblato dieci/quindici anni fa, per idee, stile e soluzioni visive. L’ascesa e la caduta dell’eroe puntellate da musica tenera, gioiosa, epica, minacciosa, tragica, triste. Tutto troppo scontato per essere bello. Tutto troppo superficiale per emozionarci, anche se si capisce che certe persone hanno voluto davvero bene a Tim, non solo ad Avicii. A un certo punto la sensazione è di trovarci di fronte a un lavoro che ricorda troppo da vicino certi salotti televisivi che campano sulle tragedie famigliari e sulla cronaca nera. E francamente, non credo che ce lo meritiamo, né noi né la memoria di Avicii.
Quindi, da vedere? Sì, se siete appassionati di Avicii e avete vissuto un tempo passato ma non ancora remoto. No, se siete appassionati di musica: ci sono lavori molto migliori in giro. Snì, se siete neofiti: è un documentario né migliore né peggiore di molti altri, e vi darà una panoramica tutto sommato corretta della parabola artistica e umana di un grandissimo artista. Corretta ma non accurata, perché ci sono moltissime ellissi e lacune nella biografia e nella carriera di Avicii.
Chiudo con una riflessione personale e una domanda. La riflessione riguarda il mondo che corre, cambia rapidamente, e mi fa pensare che Tim Bergling è scomparso da sette anni mentre i suoi maggiori successi hanno superato i dieci anni, Levels sfiora i quindici. Parliamo di un’altra epoca, ormai, con dinamiche e un termometro completamente diverso da oggi, nell’industria musicale come nel pubblico. E poi, la domanda che segue questo ragionamento: Avicii è stato, suo e nostro malgrado, la vittima sacrificale sull’altare di un sistema che stava accelerando troppo senza pensare allo schianto. Si può dire che il suo esempio però sia servito per far approcciare tanti ragazzi in modo differente alla fama, con maggiore criterio e cura anche da parte di manager e e team. E allora, forse oggi la storia di Avicii avrebbe una conclusione diversa? O la sua è la strada inevitabile di un genio compreso e amato da milioni, ma forse troppo tormentato, non compreso proprio da se stesso? Per citare un altro (discutibilissimo) genio, I guess we’ll never know.
06.01.2025