Foto: Alessio Treves
Samuel riparte dalla cassa, dalla consolle, dal club. Come dj ma anche come cantante. ‘Il Sol Dell’Avvenire’ (il nuovo singolo di Samuel, che esce simbolicamente il 25 aprile, data in cui lo presenterà nel suo dj set ai Bagni ralf, a Riccione) è l’alba del futuro di un artista che da quasi trent’anni è sulla scena ma che vuole costantemente rinnovarsi.
Un percorso che l’ha portato più volte a oscillare tra la scrittura cantautorale, il pop, un rock alternativo, il dub, e tante altre influenze di una carriera lunga e ricca di successi, con i Subsonica, da solista e nelle innumerevoli collaborazioni che hanno costellato la sua storia.
Una storia che però passa soprattutto attraverso un grande amore, quello per il clubbing e la musica elettronica, il djing. Dalle serata firmate Krakatoa insieme all’amico di sempre, Pisti (dj bravissimo e leggendario), alle avventure discografiche targate Motel Connection (sempre con Pisti e con Piefrunk, primo bassista dei Subsonica), fino a tanti, tanti dj set che lo hanno visto protagonista di gloriose stagioni del clubbing italiano più interessante. Un amore che si è riacceso con forza negli ultimi tempi, tanto da farci trovare spesso Samuel di nuovo in consolle e a fargli salire la voglia di un nuovo album solista molto club oriented, incoraggiato dal team della nuova etichetta che lo ha accolto nel roster, Asian Fake.
Insomma, di carne al fuoco ce n’è; di cose da raccontare, pure. Mettetevi comodi perché quelle che dovevano essere “due battute sul nuovo singolo” si sono trasformate in una lunga intervista, anzi in un lungo e caloroso dialogo con una delle voci più importanti del panorama italiano, e con una delle menti più brillanti e intelligenti dello scenario musicale.
‘Il Sol Dell’Avvenire’ è il tuo nuovo brano, un pezzo molto, molto club, anche se a suo modo pop. Come ti si trovato ad avere in mano un pezzo così?
È un ritorno alle sonorità che sento più familiari, quando sono nati i Subsonica facevo già il dj da anni, o meglio “mettevo i dischi” nei locali di Torino mescolando i suoni di quel periodo storico che erano intrisi di elettronica: la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 sono stati una bella rivoluzione con i campionatori che permettevano di registrare e ricostruire i suoni. Poi parallelamente alla formazione e al successo della band ho sempre suonato, per anni ho portato avanti la serata Krakatoa con Pisti, abbiamo avuto dj come John Digweed, Josh Wink e tantissimi altri, e in quel periodo mi sono trasformato davvero in un dj, non un semplice selector.
Com’era possibile una serata come Krakatoa con guest così… giganti?
Avevamo due grosse fortune: l’Italia a quel tempo era una mecca per i dj di tutto il mondo, da noi la necessità di stare insieme ha generato un po’ quel tipo di socialità, di clubbing che ha attirato tanti dj esteri, c’è sempre stata una vibe particoalre in Italia e lo percepivano, la voce si spargeva. E poi la nostra serata radunava 2mila persone di giovedì, quindi i dj spesso erano liberi, a differenza del weekend, e costavano meno. Comunque una serata con 2mila persone in pista, in settimana, a Torino – che è una grande città ma a suo modo è un paesone, una città di provincia – era una gran cosa anche per dj abituati alle grandi serate inglesi ed europee dell’epoca.
Torino in quel periodo è stata proprio un epicentro del clubbing, e in generale della musica e di tanta cultura alternativa.
A Torino c’era – c’è ancora – Ultrasuoni, un negozio che aveva dei promo incredibili, per non so quali giri arrivavano spesso dei promo di dischi incredibili di cui circolavano che ne so, cinque, sei copie in tutta Europa, e due finivano nella borsa mia e di Pisti, per farti capire. Potevamo avere i dischi migliori in anteprima e questo talvolta ci ha aiutato a scegliere i dj ospiti molto prima del botto: per farti un esempio, ‘Satisfaction’ significò poter chiamare Benny Benassi a una cifra tipo 1500 euro, qualche settimana dopo ce ne sarebbero voluti molti di più! O Marco Carola chiuso a – adesso non vorrei dire una cosa inesatta, ma per darti un’idea – cira 700 euro, parliamo di anni intorno al 2000, oggi sappiamo che personaggio gigantesco è diventato. La Torino degli anni ’90 e anche un po’ successiva era un luogo dove per reazione avvenivano tante cose, forse avere meno sovrastrutture ha portato a cercare maggiori alternative in modo più libero, nella musica, nel clubing, nella cultura.
Perché hai sentito il bisogno di tornare a suoni elettronici in un tuo disco da cantante?
Nella mia vita ho una storia importante con i Subsonica, con cui abbiamo esplorato varie direzioni tenendo presente che la forma canzone è il centro di tutto, da lì negli anni abbiamo percorso le strade dell’elettronica, del pop, del rock, del dub, del cantautorato, della house… lo sai. Nel mio percorso solista ho abbracciato la mia vocalità, la passione per i cantautori e per le parole. Il mio primo lavoro da solo è stato scritto e prodotto con Lorenzo Jovanotti e Michele Canova, ormai Lorenzo è l’imperatore del pop italiano, e Michele “il” produttore pop per eccellenza, quindi ho lavorato su una dimensione schiettamente pop che non avevo mai davvero approfondito. Il secondo album è stato invece figlio della solitudine da pandemia, perciò voce, chitarra, scrittura intima e cantautorale. Vissuto questo periodo ho capito che mi piace invece molto stare dietro la consolle, quindi ho ripreso in mano le mie vecchie esperienze e ho costruito il Samuel dj, sto suonando parecchio in giro, ho ritrovato forte il gusto e il piacere del club. Questo percorso quando sono arrivato al concetto del terzo album è esploso prepotentemente.
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Cosa c’è nella musica da club che oggi ti attrae nella misura di farci un album?
C’è la mia storia, c’è quella parte di me che si sente più liberamente attirata da questi suoni, da questo territorio. E c’è questa naturalezza che sento ogni volta che sono in consolle, che poi si tramuta in una scrittura molto naturale in quella direzione. Essere dj, se ci penso, è da sempre parte intrinseca della mia espressione, lo era a vent’anni con i dischi e lo è oggi, con tutto ciò che c’è stato in mezzo e con tutte le trasformazioni che possono essere create nel tempo.
Qualche settimana fa ho suonato, dopo anni, un dj set totalmente in vinile, e poco tempo dopo parlavo con Enrico Sangiuliano delle differenze tra com’era suonare “prima”, ai tempi del vinile, e oggi, quando possiamo suonare i vinili, volendo, ma essere dj significa perlopiù mettere dei file da USB. La discussione era interessante perché secondo me non è più facile l’uno o l’altro modo, è solo diverso. Tu come la vedi?
La vedo così. È diverso. È diverso il modo in cui si suona, perché l’approccio da vinile è quello di avere, per forza di cose, una selezione limitata di brani, che ti aiutano però a settare il tuo sound; inoltre, scegliere un disco e mixarlo richiede buona parte del tempo in cui si sta in consolle, questo comporta anche che i dischi suonano più a lungo, i mix sono più lunghi, e il pubblico di riflesso ha una relazione più immersiva, forse, con la musica e il dj. Viceversa, il digitale permette di mettere a tempo in pochi secondi, permette di avere una quantità infinita di brani in “borsa”, e quindi spesso esploriamo territori dei nostri set meno battuti, se mi passi la metafora. E poi abbiamo il tempo di creare effetti, loop, dei veri edit e remix live, per cui ogni performance è unica, più di quanto lo fosse in passato. A me non piace molto il fatto che questo abbia portato con sé anche un atteggiemtno più divistico dei dj, con il pubblico che ci guarda e le foto e tutto il resto, e paradossalmente con meno ricerca, spesso.
Qui si apre un confronto interessante. Posso dire la mia?
Vai.
A me da un lato piace che questo mestiere sia diventato anche un po’ divistico, ho visto il nostro mondo crescere e diventare grande come quello pop, rock, rap, e ok è bello sapere che il dj oggi è un lavoro riconosciuto e osannato. Però mi sconsola quando vedo le persone, anche tante, che ballicchiano tutte rivolte verso il palco. Quella cosa è bella quando si guarda una band, un cantante, ma per me stare in consolle e vedere la gente che balla libera, senza inibizioni, guardandosi negli occhi aziché in consolle, ha molto più senso. No?
Assolutamente. Sono un cantante da quando ero ragazzino, anzi i miei genitori mi dicono sempre che a sei anni gli dicevo “da grande farò musica!”, quindi sono abitutato a stare su un palco come la gente che mi guarda. Però facendo il dj ho capito che preferisco essere meno esposto, vedere le persone apprezzare un set ballando e non guardando me con i telefoni alzati.
E la tua esperienza da dj quale ti fa preferire?
Non c’è una preferenza, sono modelli artistici su cui ha molto peso la tecnologia. È chiaro che oggi siamo tutti più comodi, ma è bello che ci sia anche chi ancora preferisce suonare con i vinili. Alla fine la bellezza di fare il dj è creare qualcosa di completamente nuovo che si relaziona alle persone. La prima persona che mi ha mostrato come si crea questo legame è stata Claudio Coccoluto, non avevo mai visto in vita mia un uomo che saliva in consolle e attraverso dei dischi suonati in sequenza era in grado di trasportare letteralmente le persone in una sua dimensione. Incredbile.
Un maestro assoluto, unico.
Un’altra lezione importante la ricevetti da John Digweed quando venne a suonare da noi. Erano i primi anni ’00, lui per anni era stato uno dei dj più acclamati e rispettati del mondo, lo era ancora ma la minimal stava da poco imponendo un nuovo linguaggio asciutto e fatto di glitch, che aveva attecchito presto, mentre Digweed era invece ancorato ai suoni prog ampi, riverberati della sua label bedrock, hai presente no? Il pubblico non gradisce, reagisce in modo distaccato, pensa che nella mia ingenuità gli dico “se vuoi il cambio ti diamo una mano a scaldare la pista”, pensa te… Invece, lui mi risponde “non ti preoccupare: non sono io a dover andare dove vogliono loro, ma loro a venire dove voglio io”. E infatti poi la serata è decollata.
È cosi che dovrebbe ragionare un dj. Dico “dovrebbe”.
È così. Non con la spocchia di pensare di suonare sempre i pezzi giusti, ma con la consapevolezza di essere in grado di dare alle persone ciò che magari non sanno di volere, ribaltando taltvolta le aspettative e gestendo anche quelle situazioni che partono complicate.
A me è successo qualche mese fa: tre ore di set prima dei Röyksopp, club pieno dall’inizio, per la prima ora ho visto un po’ di perplessità, poi mi hanno fatto i complimenti, gente mi ha scritto il giorno dopo…
Perché il nostro compito è anche quello di credere in ciò che stiamo suonando, tenere la barra, la linea che vogliamo seguire. Fare il dj è bello anche per questo.

Foto: Alessio Treves
Asian Fake è la label che pubblica il tuo nuovo album, l’hai annunciato con una certa enfasi sui social e questa cosa mi ha colpito. Perché sei così felice di questa nuova avventura discografica?
È una possibilità che si è palesata per una serie di incastri fortunati. Uno degli A&R di Asian Fake è un amico che ho visto crescere, Victor Kwality, un ragazzo di Torino che ha sempre orbitato nel nostro giro e negli anni mi ha chiesto consigli su come entrre in questo mondo, sulla musica. Ora è uno dei miei discografici e questo mi rende orgoglioso per molti versi, poi mi fa piacere pensare di avere per la prima volta in vita mia un discografico più giovane di me. Ho sempre avuto a che fare con gente più grande che mi consigliava cosa fare e non fare sulla mia carriera, adesso il mio interlocutore è bravissimo professionista che ho visto crescere del cui gusto estetico e musicale ho totale fiducia. Ci tengo a dire che Asian Fake è un’etichetta in cui mi rispecchio, mi ricorda quel mondo artigianale da cui sono nato, la prima Mescal, considerando che da diversi anni ormai mi relaziono invece con grandi realtà strutturate, come Sony. E infatti Sony non sarebbe stato il partner giusto per un album come questo, ne abbiamo parlato e loro sono stati molto comprensivi nel darmi la libertà di uscire con Asian Fake, con serenità siamo giunti a un accordo che mi ha permesso di approdare al lido di Asian ma distribuendo il singolo. A riprova dei buoni rapporti con Sony, sarà comunque l’etichetta del prossimo album dei Subsonica.
Ho letto che il tuo partner di produzione di questo nuovo album è Marco Lys, un producer che si è brillantemente fatto notare per alcune sue tracce e per un remix clamoroso della laeggendaria ‘Brighter Days’ di Cajmere. Una scelta che mi ha sorpreso positivamente e incuriosito. Ce la vuoi raccontare?
Ti racconto una storia divertente: ero a suonare a Jesolo in un club, metto ‘Brighter Days’ di Cajmere, la versione di Marco è diventata un nuovo classico nel giro di pochi mesi, e un amico in consolle con me dice “ah devo presentarti Marco!”. Io pensavo fosse messicano o giù di lì, considerando lo shuffle, il modo di usare groove e percussioni nei suoi pezzi. Invece scopro che è di Vittorio Veneto, conta che io vivo ormai per una parte dell’anno a Venezia, perciò mi sono fatto dare subito il numero. Ci siamo trovati e lui ha mixato e masterizzato il disco, ovvero l’ha co-prodotto, perché se parliamo di elettronica mix e master sono una componente della fase di produzione, parliamoci chiaro.
Perché lui?
Avevo la necessità di avere questa pulizia di suono che può dare un prodcuer che si occupa di musica da club, e volevo un producer che facesse quello. Io sono meno house di lui, più technoide, prediligo atmosfere più “scure”, ma volevo uno come lui a mixarlo. Ho lavorato con tanti grandi della musica pop, avrei potuto andare da un classico “big” del sound engineering pop e rock, sono bravissimi, ma non sarebbe stata la scelta giusta per questo tipo di album. Ho visto Marco lavorare nel suo studio, produce e mixa con due NS10 a un volume bassissimo, a raccontarlo fa quasi sorridere, lui sostiene che il trucco sia avere un analizzatore di spettro che permette di vedere bene ogni frequenza e si calibra su questo aspetto per lavorare i mix in modo certosino. E funziona!
È stata una bella chiacchierata, siamo andati spesso lontani dalla domanda principale: che mi dici del nuovo album in arrivo?
Credo sia il disco di cui sono più contento. Tra una domanda e l’altra ti ho raccontato i percorsi della mia vita e le tante direzioni intreprese, sempre con passione e con l’idea di fare la cosa che mi sentivo di fare. Ma a questo punto della mia carriera penso proprio che la summa di canzone e club, consolle e scrittura, sia ciò che mi entusiasma di più.
25.04.2025