Foto: La Biennale/Andrea Avezzù
La Biennale Musica è quell’evento a cui ogni anno di più ci piace partecipare, per la curiosità di immergerci in scenari (perlopiù) avanguardistici, per il piacere di esplorare dimensioni della musica (anche elettronica, talvolta anche da club) spesso inediti e sorprendenti, per il godimento di passare dei giorni a Venezia tra arte, musica, e in un clima umano decisamente intrigante. La Biennale Musica 2024 ha visto l’ultima direzione artistica firmata Lucia Ronchetti, curatrice che ha saputo osare, spingere, cercare di creare ponti tra mondi apparentemente vicini ma nei fatti, spesso ancora piuttosto distanti. Abbiamo visto Brian Eno e Kode 9, artisti di primissima esperienza e orchestre rinomate. Quest’anno, più che mai, abbiamo assistito a un programma costruito sulla volontà di rompere gli argini di cui parlavamo poco fa, e farlo con l’esplicito claim della “musica assoluta”, quella senza l’uso della parola, quella dove il suono i ogni sua forma deve bastare a sé (e al pubblico) come forma di espressione artistica.
Tra gli spettacoli in cartellone, quelli che abbiamo seguito sono stati certamente più che pertinenti, nella loro inevitabile e doverosa eterogeneità, e sono stati una cartina tornasole abbastanza fedele della direzione Ronchetti e del percorso intrapreso. Soprattutto, fattore da non sottovalutare, sono stati concerti e set godibili, divertenti, e dal nostro punto di vista, capaci di coniugare i proverbiali palati difficili dei cultori della Biennale e quelli di un pubblico che si approccia in modo molto più rilassato alla musica e a questa blasonata manifestazione.
Foto: La Biennale/Andrea Avezzù
Al Forte Marghera – luogo unico e affascinante per ubicazione, spazi, possibilità – abbiamo visto un Tim Hecker ammaliante, in uno show che ha incantato molti e che a parere personale è stato ben costruito ma forse un poco sbilanciato in una prima fase ambient davvero troppo lunga a discaputo di una seconda intensa, elettrizzante ma breve. A seguire una soporifera performance di Sam Barker, davvero dimenticabile. Mentre in chiusura, Cecilia Tosh ha sfoderato un dj set techno sicuramente più adatto a un club o a un festival in orario più tardo, che tuttavia ha dimostrato come proprio la musica da ballare, a maggior ragione quando strumentale e decisamente “viaggiona” come ha saputo essere la techno firmata Tosh, sia un linguaggio universale, ecumenico, decisamente calzante alla definizione di “musica assoluta”. Ci è piaciuta, nonostante abbia dovuto prendere le misure della sala per i primi 15/20 minuti di set. Sala peraltro eccellente se parliamo di acustica e impianto: potente, preciso, limpido, da far invidia a moltissimi club e e festival, e questo nonostante una conformazione della stanza non proprio pensata per questo tipo di attività. Magistrale.
Il giorno successivo siamo daccapo, direzione Forte Marghera e nuovo triplete di esibizioni. Tre live ad opera, in ordine di apparizione, di Søs Gunver Ryberg, Pan Daijing e Roel Funcken. E questa volta, siamo soddisfatti di tutte le performance, che offrono sfaccettature diverse dell’elettronica, da quella più dilatata fino a ritmi e soluzioni decisamente “aphexiani” nel live di Funcken. Tre ore di sound gratificante che ci ricordano perché siamo alla Biennale.
Ma se musica e suono convincono, altrettanto importante, in queste due serate al Forte, è la parte visiva, ovvero il light design firmato Theresa Baumgartner. L’artista tedesca si supera, immaginando e portando in scena soluzioni visive mozzafiato, di impatto ma eleganti, alla ricerca di un dialogo con il pubblico più che dell’effetto wow, e uso la parola “dialogo” proprio perché nei non semplicissimi spazi del Forte, le luci si intersecano con noi che siamo giù dal palco, riuscendo a divenire vero e proprio spazio tridimensionale di scenografia.
Foto: La Biennale/Andrea Avezzù
A completare il nostro weekend, il concerto della WDR Sinfonieorchester (diretta da Ilan Volkov), con i brani di Marco Momi (‘Kinderszenen’ commissionato per la Biennale), Beat Furrer (‘Konzert’, prima italiana), e Bernd Alois Zimmermann (‘Sinfonie in einem Satz’). Un’ora emozionante che ci ha portato su tre pianeti diversi, dove abbiamo potuto apprezzare direzioni e soluzioni compositive ed esecutive.
Quello che ci resta, ogni anno ma forse quest’anno di più, è la sensazione di poter spingere la musica oltre i confini stagni di genere, tipi di pubblico, ricettività e sensibilità spesso distanti tra loro. La Biennale è un’istituzione che per sua natura allarga il campo, instaurando un dialogo fatto di esperimenti, tentativi, riflessioni e azzardi. Le stagioni che hanno portato la firma di Lucia Ronchetti hanno evidenziato questa vocazione (e questa missione) generando grandi plausi e grandi discussioni, segno che le acque dello stagno sono state increspate, ed è sempre cosa buona e giusta, sana, doverosa, quando abbiamo a che fare l’arte. Perché anche in un ambiente colto e preparato come quello del pubblico della Biennale, è facile cadere in un autoreferenziale consevatorismo che porta a certe scatole mentali che diventano impermeabili a novità e contaminazioni. Invece, da Autechre a Brian Eno a Tim Hecker, per fare tre nomi “memorabili” di queste edizioni, abbiamo assistito a un’evoluzione importante e intrigante dei cartelloni della Biennale Musica. E siamo certi che il passaggio di testimone verso la direzione di Caterina Barbieri, in carica dal 2025, proseguirà questo discorso e lo farà ulteriormente fiorire.
24.11.2024