Foto: Kimberly Ross
Non è semplice parlare di C2C. Per innumerevoli motivi. Perché si tratta di un festival che è stato capace di costruirsi un tale blasone, una tale credibilità nel corso degli anni, da far apparire ogni critica pretestuosa – eppure, il nostro lavoro è anche quello di osservare e sollevare obiezioni e discussioni, cogliere le imperfezioni in un’ottica costruttiva, ovviamente – e ogni opinione “non allineata” come sospetta (e badate che è un complimento enorme per un festival, proprio per la reputazione meritata e guadagnata sul campo). Perché si tratta di una manifestazione che tra le tante frecce al proprio arco ha quella di essere riuscita a dare forma a uno stile che è molto più “un sentimento” che una scatola di generi o scelte di cartellone che si rifanno a questo o quel campo nel grande mare della musica (elettronica ma, ormai, non esclusivamente). Perché è una delle punte di diamante del panorama musicale nazionale, un successo basato oltretutto sulla qualità altissima della proposta, e non saremo certo noi a remare contro, visto un andazzo generale fatto di line up fotocopia.
Messe le mani avanti su questi punti, ci togliamo subito il fardello delle critiche. Che sono sempre le stesse, più o meno: un impianto non sempre pulito e una resa sonora talvolta problematica, soprattutto sul main stage; le file lunghe per ogni tipo di servizio (gli steward che contingentavano gli ingressi all’area food erano davvero una delle cose più anomale viste in anni di frequentazioni di rassegne in tutto il mondo); i cambi palco lunghi, ormai tradizione delle serate al Lingotto (anche se, a onor del vero, più snelli che in passato, forse per mere questioni di set up degli artisti, ma meglio così). E un generale mood “poco caloroso”. Insomma, onestamente (e passo alla prima persona singolare perché parlo per me): tra i cancelli del Lingotto e l’ingresso in sala, mi sale sempre una leggere inquietudine e un piccolo fastidio, e questo nonostante sappia benissimo di andare a divertitmi parecchio con della gran bella musica. Però, è così, non ci posso fare nulla, è proprio una sensazione che sento sottopelle. E anche quest’anno, o meglio, questo sabato, visto che purtroppo l’unica serata che ho visto di C2C 2024 è stata quella del 2 novembre, sono entrato al Lingotto attanagliato dal solito feeling. E qui viene il bello, e finisce la parte critica.
Foto: LLumcollettivo
Il bello è che con il passare delle ore, la sensazione un poco respingente se ne va, e arriva l’abbraccio caldo e accogliente di ciò che sento e vedo nelle due sale di C2C. Vedo innanzitutto un pubblico sempre più figo, non trovo parole più adeguate: C2C nel corso degli anni è riuscito nel difficilissimo compito di operare una sorta di “auto-selezione” di appassionati che si riconoscono dallo sguardo, dallo stile, da quel qualcosa che fa subito pensare alla “gente da Club TO Club”. Arty, sofisticati eppure presi bene sotto cassa o in mezzo alla sala. Non è roba da poco, considerando che non parliamo più, e da tempo, del festivalino di nicchia, ma di una manifestazione capace di richiamare almeno 40mila persone da diversi Paesi del mondo (41mila di comunicato stampa, da 47 diversi Paesi e con il 33% di partecipazione di pubblico straniero, per citare i dati ufficiali del festival e accontenatre chi si nutre di cifre e statistiche), e di cui le maggiori testate internazionali parlano in modo più che lusnghiero ogni anno. Un conto è costuirsi un circolino di 40 amici con la stessa visione, un conto è costruirsene uno da 40mila.
Altro punto forte è l’allestimento di un corridoio finalmente non semplice “punto di passaggio” tra due padiglioni di uno stabilimento da fiera, ma ricco di installazioni perfette per una bella foto su Instagram (e infatti era puntualmente gremitio di gente che si fermava per uno scatto) e manifesto dello status del festival, perfettamente inserito in una cornice di musica e arte contemporanea. E lo stesso discorso si può estendere al palco dello Stone Island stage, diventato fruibile a 360 gradi e con un muro di speaker su tutti i lati a rendere il suono godibile in maniera frontale, con gli artisti che si esibiscono al centro del palco, nascosti in parte dall’impianto stesso. Una soluzione nuova e molto intrigante. Sul main, più lineare nella soluzione scenografica, colpisce ancora una volta l’impianto ledwall sulle pareti laterali e sul soffitto. Una bella idea che rende quasi “mappata” la stanza, e con i giusti visual ci trasporta in un bel viaggio.
Foto: Fabiana Amato
E ora, la musica. Che dire. Se all’ingresso il mood è quello che raccontavo prima, bastano pochi minuti di show per far salire la presa bene, sentimento che crescerà di ora in ora soprattutto grazie a due esibizioni eccezionali: Romy, con un live basico (lei + un tastierista/lanciatore di strumentali che poteva essere il vostro compagno che fa il concerto nella band del liceo, a vedersi) quanto efficace, denso, sentito, profondo, gustoso. Il pubblico la ama, lei ci ama, tutto fila via liscio tra le hit del suo album e cover azzardate come ‘Better Off Alone’ di Alice Deejay (sì, la hit eurodance di fine ’90) e ‘1998’ di Binary Finary (qui hanno proprio suonato la versione di Kay Cee, feticcio trance dell’epoca e classico del genere di ogni tempo). Nonostante Romy non brilli per potenza vocale e l’impianto del Lingotto non sia esattamente un supporto con queste premesse, il concerto è una favola, e il fatto che il pubblico la segua gioioso anche nei momenti più nazional-popolari come quelli appena citati, fa capire appunto quanto esista una “mentalità da C2C” che è intelligente, colta ma senza menate di sorta. È un’ora di vita bellissima e catartica. Il meglio della serata fino a quel momento. Solo che poi arriva qualcosa di ancora migliore.
Arrivano i Bicep con il loro show AV, Chroma. Reduci dal successo di due anni fa (un live mitologico che resterà nella storia del festival), il duo britannico ci coglie in contropiede con un dj set che parte senza fronzoli, cassa in quattro veloce e prog/techno, per poi spostarsi su coordinate qui trancey, lì UK breaks, là UK garage, una summa del suono rave British e delle produzioni Bicep. Quasi tutti i brani sono loro edit o pezzi o remix, con pochissime concessioni ai loro brani più famosi (fanno capolino solo ‘Opal’ e ‘Glue’), tante produzioni recenti, e ID varie (a me pare di sentire un accennato ‘Dawn Chorus’ di Thom Yorke ma potrebbe pure essere suggestione). È un set perfetto. P-e-r-f-e-t-t-o. Roba che non si sentiva da tempo. E supportata da una parte visiva eccellente, mozzafiato. Ne usciamo tutti elettrizzati.
Foto: LLumcollettivo
Ora potrei parlarvi degli altri act, snocciolarvi nomi e voti, parlare per sentito dire di ciò che è successo nelle altre serate, un Mace in grande forma e Arca deludente e così via, ma chissenefrega. Parlare di festival facendo l’elenco è noioso, farlo con C2C è anche peggio, quasi fuori luogo. Perché la verità è tutta nel racconto delle scorse righe, è in un festival che riesce a farti cambiare umore durante la serata e a farti dimenticare le piccole criticità grazie a un grande cartellone. E ancora più prezioso, riesce a farlo anche quando il suddetto cartellone era stato accolto con qualche perplessità dai fan, perché non c’era il nome esagerato mai visto prima da queste parti né la sorpresa dell’ultimo secondo, e anzi i nomi di punta erano già stati proposti nell’immediato passato. E invece, il successo è stato clamoroso, proprio perchè ormai C2C non ha bisogno dei colpacci da clamore mediatico, e riconfermare i vari Bicep, Romy, Arca, così come ospitare il debutto di Voodoo by Mace, artista che il festival l’ha sempre frequentato da sincero e appassionato spettatore, ha un valore proprio assoluto, dà il senso di famiglia, di continuità, di chi occupa ormai una posizione consolidata nello scenario così come nel cuore del pubblico. E per un festival che ha sulle spalle ventidue edizioni, aspettative sempre altissime, una concorrenza che è quella dei principali competitor internazionali, non è davvero male. Anzi, questi ventidue anni C2C non li sente proprio.
Lasciatevelo dire da uno che a Torino ci è venuto dalla seconda edizione, quando si girava letteralmente di club in club con il Tuttocittà e gli autunni erano gelati e nebbiosi più degli inverni di oggi; e ci è tornato praticamente ogni anno, dai club al Lingotto delle prime edizioni mastodontiche a quelle degli assi nella manica, i vari Battiato, Yorke, Aphex. E fino agli anni ’20. Cioè, oggi. Con la consapevolezza che vada come vada, l’inizio di novembre mi porta a Torino, dove entro un po’ sospettoso ed esco con l’onesta voglia di spendere parole di amore per questo festival. Che è un patrimonio di ogni amante della musica.
07.11.2024