Foto: Instagram @clubdogo
Il Dogo è per la gente. Milano finest. Un inno alla marmaglia. Che brucia ancora. Potremmo scrivere tutto l’articolo con le frasi ad effetto disseminate nella carriera dei Club Dogo, e diventate slogan, massime, aforismi di strada in questi vent’anni di carriera del gruppo rap più iconico del Paese. E sarebbero comunque sufficienti per tratteggiare un ritratto sintetico e fedele di un pezzo di storia importantissimo dell’hip hop, di Milano, dell’Italia post-2000.
I Club Dogo sono tornati insieme e ieri sera hanno debuttato nella loro serie di concerti, dieci, al Forum di Assago. Seguirà un San Siro la prossima estate e date sparse nei festival dell’estate italiana. Ma quello che conta è qui, è nella loro città, è in ciò che è successo ieri sera. Il mercato musicale italiano negli ultimi anni è sempre più domestico, i numeri e le attenzioni sono tutte per gli artisti nazionali, gli stranieri che un tempo dominavano oggi spesso stentano. Forse questo ci rende meno esterofili e provinciali. Forse, al contrario, guardare sempre dentro il nostro orticello è la forma peggiore di provincialismo. Chissà. Ma ancora più interessante è scoprire come esistono fenomeni fortemente locali in una nazione così piccola. Pensiamo a Napoli che da sempre è una città-mondo musicalmente parlando. Pensiamo ai Club Dogo che fanno dieci sold out in un palasport da 12mila persone e uno stadio da 75mila, tutto nella stessa città nel giro di pochi mesi, ma senza un tour in giro per lo Stivale. Anomalo, no? È il 2024, baby.
Ma com’è stato il ritorno dei papponi sulla traccia? Devastante. Bellissimo, misurato, solido, roccioso, robusto, esattamente come desideravamo e come desideravano i fan. Un mare di Jordan, Air Force 1, Squalo, piumini North Face e merchandising della band, facce che vanno dai 18 ai 40 anni e più. Una foto di una certa Milano. Per molti versi, una celebrazione con un pubblico molto simile a quello dello stadio. Una festa popolare, bellissima proprio per questo. Zero poser, zero corsa alle aree VIP, i telefoni che riprendono il concerto e i momenti da cantare in coro, mica i selfie e i video con la camera girata verso di sé.
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Lo show inizia con un breve film di una rapina che poi sfocia nel concerto, un incipit figo, sbragato, spaccone com’è giusto che sia. Notevole notare come tutti, ma tutti, fischino sonoramente quando in scena appare la Polizia (ovviamente sono attori ma ci siamo capiti). Il primo blocco è dedicato ai pezzi storici, da ‘MI-Bastard’ in apertura fino a ‘Vida Loca’ passando per ‘Rap Soprano’ e molto ‘Mi-Fist’, che i dogofieri più accaniti apprezzano. Cambio scena ed ecco la parte maranza della serata, ‘Spacco Tutto’, ‘Per La Gente’, ‘Ciao Proprio’ e compagnia bella. Si canta, si balla, un inno continuo. Lo stadio. Poi è la volta di un blocco “jamaicano” che culmina con il primo ospite dei pochissimi della serata: Giuliano Palma è vivo e lotta insieme a noi per vincere, ovviamente a ‘PES’.
La seconda metà dello show è quella più tirata. Arrivano i pezzi nuovi, quelli dell’ultimo disco, arriva Elodie su ‘Soli A Milano’ e raccoglie applausi, i pezzi corrono via veloci e tra una pausa e l’altra si nota sempre più la mancanza di qualcuno che stasera sul palco non verrà. E a un certo punto il pubblico grida “Mar-ra! Mar-ra!” sperando che il tassello più importante del puzzle della Dogo Gang che fu faccia il suo ingresso in scena. Spoiler: non accadrà stasera. Peccato. Ma un po’ era prevedibile. Chi invece si presenta in forma smagliante è un J-Ax barbuto su ‘Brucia Ancora’, uno dei pezzi che hanno inchiodato i Dogo alla croce della mitologia del rap e di Milano. Ax che su questa canzone aveva scritto un capitolo importante e che aveva creato una legacy tra la prima wave del rap milanese, quella che all’epoca era la nuova generazione e soprattutto un certo tipo di pubblico, quello “che sta nei Fiorini bianchi la mattina”, il Paese reale che se ne sbatte dei fighettismi e ascolta questa roba qua. Col dito medio alzato. Delle centomila incarnazioni di J-Ax, che in vita sua è passato dallo street rap al pop zuccheroso passando per punk, cantautorato, populismo social, podcasterie assortite e ritorni di fiamma con i suoi vecchi soci e brand, quella di ieri sera ci ha fatto battere il cuore. Ale, sbattitene il cazzo di tutto e torna a fare questa roba, ti ameremo ancora di più.
La chiusura non può che essere con la doppietta ‘Puro Bogotà’ dove arriva Vincenzo da Via Anfossi – e viene giù il Forum – e ‘All’Ultimo Respiro’. Tutti contenti, tutti felici. Il sogno di ogni zanza si è avverato. Mentre torno al parcheggio, in mezzo al mare di piumini, felpe con il cane a tre teste, odore di canne e ragazzi esaltati che commentano le due ore appena trascorse, mi viene in mente tutto quello che hanno passato i Dogo per arrivare qui. Una scena hip hop che li osteggiava perché non erano duri e puri e parlavano di figa e droga e si vestivano da zarri (ma quegli altri che parlavano di realness che fine hanno fatto? E quanto li invidiavano per essere così liberi?). Le radio che numeri alla mano ci hanno messo dieci anni a passare i pezzi, con una miopia rara. La stampa di settore, pure quella che si vanta di caprine di rap, che non ha mai compreso la portata di questi fenemoni che stavano leggendo come nessun altro il cambiamento in atto nel Paese, e l’hanno raccontato come nessun altro ha fatto. La discografia che ci ha creduto un po’ a spruzzo ai tempi e invece oggi cala le braghe davanti al primo driller con i numeri fake su TikTok. E il mondo pop che ha sempre sogghignato di fronte a sti tre scappati di casa che chissà cosa vogliono combinare. Ecco cos’hanno combinato. Le rivoluzioni si fanno così. Lunga vita ai Dogo.
11.03.2024