‘Civic Jams’, quarto album dei Darkstar, si basa su un’elettronica colta, che mantiene vivo il dialogo tra le atmosfera rarefatte della continuum hardcore alla bass music classica del Regno Unito. Un suono sordo e pulito nello stesso tempo, fortemente sperimentale, fondato sulle risonanze e realizzato da classici preset a due fasi contenuti in un banco suoni old skool. Il mood che proviene dall’organo è talmente riconoscibile da diventare uno dei riferimenti del progetto stesso.
L’album, uscito da giorni su Warp Records, è nato quasi in contemporanea con il lockdown. Con il mondo nel pieno del suo isolamento, il duo si è posto una domanda: cosa avrebbero potuto fare le persone per aiutarsi a vicenda? Dopo aver cercato di esaminare lo stato salutare proprio e altrui, James Young e Aiden Whalley hanno iniziato a sentirsi a proprio agio nel pieno di uno stato di agitazione e di una intensa sensazione claustrofobica.
Politicamente e culturalmente questa pandemia ha segnato tutti. ‘Civic Jams’ è diventato il ricordo di una perdita e uno sguardo astratto sulle sfumature della vita?
Ha delimitato i confini di uno spazio tangibile. Con ‘Civic Jams’ ci siamo concentrati sui limiti della creatività. Mentre la Brexit resta quasi confinata ai margini dei pensieri, la pandemia ha preso il sopravvento e noi non abbiamo fatto altro che sottolineare, con la nostra produzione, un comune e reazionario stato d’animo. Volevamo cercare di individuare quei momenti in cui si fa un bilancio delle proprie fatiche quotidiane, il tutto attraverso il nostro suono. La nostra è una ricerca: per trovare qualcosa a cui aggrapparsi e divertirsi, per distrarsi. La visione idiosincratica della musica pop elettronica sta tutta nel nostro ultimo album.
Come pittori, quando producete, siete sempre alla ricerca delle sfumature di grigio e di lievi contrasti?
Dovevamo trovare solo la tavolozza giusta e andare avanti, per poi essere successivamente disciplinati nel tenere insieme con intelligenza e coerenza un gruppo di colori mentre stavamo ultimando le tracce. Tecnicamente, la prassi è quella di sempre: ProTools per la registrazione e tutto ciò su cui possiamo mettere le mani in base a quello che si adatta meglio alla nostra idea di lavoro.
Ci sono dei plug-in che hanno davvero fatto la differenza nell’ultimo lavoro?
Iris di iZotope ha svolto un ruolo importante nella fase di campionamento e nell’isolamento delle frequenze. Abbiamo usato anche un Elektron Digitakt, un Juno 60 della Roland e una Maschine di Native Instruments. È stato ultimato tutto presso i Trident Studios e gli Warp Studios a Londra. Il mix lo ha curato Lexx. La masterizzazione, Matt Colton presso il Metropolis, che ha passato tutto su nastro per la finitura e per ottenere il calore e la consistenza a cui tanto tenevamo.
Fino a che punto siete disposti a osare quando si tratta di sperimentare in fase di sound design?
Non pensiamo alla nostra pratica come a un momento di sperimentazione: immaginiamo invece a un processo di costruzione mirato, preciso, come se stessimo progettando e costruendo un edificio. I suoni devono lavorare in correlazione con altri suoni, si tratta di una composizione complessa e di squadra, di matching e di incastri. All’interno di quello che cerchi emergono sempre tecniche e percorsi. E attraverso il campionamento e la sintesi si va molto lontano.
L’ultimo anno è stato piuttosto duro per voi.
Diciamo… poco ortodosso, dato che ci siamo spostati parecchio usando diversi studi e in diversi momenti della giornata. Lo abbiamo fatto per cercare di adattarci ad alcuni cambiamenti. Nello studio della Warp abbiamo potuto trovare il clima ideale per lavorare. Abbiamo lavorato sodo anche di notte. Ci siamo spostati molto, da Soho camminando fino a Trafalgar Square, in autobus fino a Vauxhall. Gran parte di questo album è stato realizzato in questo modo: muovendoci negli studi in città, poco prima del blocco. Abbiamo lavorato anche in remoto scambiandoci le idee via email.
Il congelamento di eventi, di show, di concerti indoor e all’aperto, in piccoli o grandi locali, potrebbe influenzare anche il futuro della discografia?
Forse. Le persone che conosco e tanti altri artisti, che ho visto esibirsi durante questo periodo, sono riusciti a farlo ovviamente e soprattutto grazie all’online. La situazione sta cambiando e sono sicuro che questo avrà effetto sul modo in cui alcune persone si avvicineranno alla produzione musicale, un domani. Bisogna solo provare a fare qualcosa che impegni e gratifichi. Oggi è dura persino mantenersi… sani di mente.
Per quale motivo vi prendete (spesso) molto tempo per produrre i vostri album?
Siamo costantemente alla ricerca del suono del futuro. Non ci accontentiamo mai. Questo è quanto facciamo noi. Ci piace conosce e approfondire le nozioni sulle attrezzature in nostro possesso. Noi, per esempio, abbiamo perfezionato una tecnica con un pedale vocale negli ultimi due anni, diventata parte centrale della personalizzazione e dell’identità del nostro suono.
Impossibile non tornare a parlare di sperimentazione e nuove tecnologie, con voi.
I nostri amici, Gwilym Gold e Lexxx, hanno sviluppato uno strumento di produzione di intelligenza artificiale chiamato Bronze che è davvero ottimo. Fondamentalmente, è un nuovo modo di creare e riprodurre musica e consente al pezzo finito di non esistere in una forma statica.
In questo caso la musica è in uno stato di costante… rigenerazione?
Pensiamo tuttavia che molti programmi e software continueranno ad espandere le possibilità di come possiamo essere creativi quando facciamo arte. Il miglioramento delle tecnologie grazie all’intelligenza artificiale renderà la musica e gli artisti più liberi di concentrarsi sulla scrittura, al composizione. Non credo che dei bravi artisti diventeranno più pigri, con l’arrivo della IA.
29.06.2020