• GIOVEDì 19 SETTEMBRE 2024
Recensioni

James Blake torna sul dancefloor, in studio e dal vivo

Il nuovo album dell'artista trova pieno compimento nella sua controparte live: per nostra fortuna c'eravamo
 
Foto: Tom Andrew/Blackwall
 
James Blake è uno dei pochi artisti che, da una posizione di retrovia o quasi nascosta, ha dato forma al pop contemporaneo senza che gran parte del pubblico generalista sappia della sua presenza ne conosca il suo nome. Come altro si potrebbe definire qualcuno che negli ultimi anni ha collaborato, in ordine sparso, con Travis Scott, Rosalia, Frank Ocean, Beyoncé, Kendrick Lamar, Metro Boomin, Slowthai, Labrinth e moltissimi altri?
 
Proprio la scena rap e R&B è diventata estremamente ricettiva nei confronti del producer inglese, che da essa ha ricevuto un riconoscimento globale che spetta davvero a pochi eletti. Ma non solo, questo suo percorso di avvicinamento allo star system contemporaneo ha ovviamente lasciato delle cicatrici, portando quello che prima era un dj-cantante di nicchia a diventare una icona contemporanea. Certo, pop in senso lato, non da spacca classifica alla Dua Lipa, ma negli anni e nei dischi Blake ha cesellato e perfezionato la sua ricerca musicale, portandola su un livello di forma canzone che risulta sia strutturata e intelligente, ma anche accessibile realmente da tutti. Riferendosi ai suoi esordi, Mark Fisher diceva che ascoltare James Blake era come “vedere un fantasma prendere forma” e quel fantasma negli ultimi dieci anni non solo ha preso forma, ma è uscito dal sua casa infestata per prendersi il mondo.
 
Alla luce di tutto questo è curioso vederlo tornare così tanto indietro, al suo primo grande amore, ora che può guardare il mondo della musica da una posizione di privilegio. Ed è questo l’obiettivo non tanto celato di ‘Playing Robots Into Heaven’, il suo nuovo disco, per provare a tornare sui propri passi e conciliare le esperienze vissute nel passato con quello che è il suo presente.
 
 

Playing Robots Into Heavennon vuole più far piangere il pubblico, ma farlo ballare, e nonostante questo sia il suo sesto disco da solista, si tratta del primo realmente club oriented. Ma nonostante tutte le buone intenzioni che accompagnano il progetto, il risultato è quanto meno discutibile, non che sia un album completamente da dimenticare ma è un lavoro senza mordente, privo di idee davvero geniali o che riescano per davvero a trasportare chi ascolta in una dimensione diversa. E questo è sicuramente curioso alla luce del fatto che ogni disco confezionato da Blake ha avuto la capacità – a volte più riuscita, a volte meno – di portare l’ascoltatore nel mondo dell’autore. Difficile dire se questa sua fragilità sia data dal fatto che è stato prodotto tra lo studio e il club, pensato per essere suonato specificatamente dal vivo, e quindi assuma la sua forma definitiva non durante l’ascolto in cuffia ma nel live (e ci arriviamo).
 
Rimane la sensazione che sia un disco di passaggio, poco a fuoco, nato con le migliori intenzioni e con anche alcuni momenti interessanti – come per esempio ‘Loading’, che riesce a condensare in modo intelligente la parte più dance con il cantato, o ‘Fall Back’ che diventa ipnotica con i suoi ritmi percussivi, o ancora ‘Big Hammer’ con il campione di Ragga Twins – ma che poi si perde nel corso dello svolgimento con un contorno di brani che rimane povero e stenta a decollare per davvero.
In definitiva, il ritorno sul dancefloor di James Blake si rivela un’arma a doppio taglio con un album che non riesce ad essere così efficace. Un vero peccato perchè sarebbe potuto essere molto di più ma forse, dopo tanti anni passati a essere autore e cantante quasi pop, lo smalto degli esordi si è un po’ perso.
 
 
E visto che parlavamo di live come esperienza complementare di questo disco in studio, siamo stati al concerto di James Blake in concomitanza dell’uscita dell’album James Blake, al Fabrique di Milano, dove l’artista è venuto per aprire il suo  ‘Playing Robots Into Heaven’ tour, e l’esperienza live ribalta la percezione avuta sul disco in cuffia. Rimane assolutamente vero che nell’ascolto personale e privato il progetto non spicca particolarmente, ma assume completamente un’altra dimensione dal vivo.
 
Le tracce poco convincenti, il difficile bilanciamento tra voce e produzione, le stesse produzioni che apparivano mosce fino a poco prima, prendono vita e diventano concrete, solide e potenti. Merito senza dubbio di un live sicuro, ricco e variegato, dove l’artista inglese appare quanto mai convinto del proprio repertorio e della propria capacità artistica, grazie alla quale riesce a cambiare agevolmente tra la sua parte più da cantante e quella da producer. Emozionanti le parti al piano, dove emerge la sua sensibilità artistica in modo più struggente. Ma anche abile nel capire dove e come mettere in scaletta i suoi grandi classici come ‘Limit to your love’ e ‘Retrograde’ – che hanno fatto impazzire il pubblico – bilanciandoli con le canzoni nuove.
 
L’intero concerto è stato gestito da lui, il suo chitarrista e il suo batterista con una calma da direttore d’orchestra, con le persone in ascolto che pendevano dalla sua voce. Anche se forse il momento più inaspettato è stata la chiusura del concerto, quando tutto sembrava passato, l’album fatto, le hit più famose cantate: come era possibile chiudere in maniera giusta la prima data del tour? La risposta che ha dato al suo pubblico è stato un set di quindici minuti che ha trasformato il Fabrique in un dancefloor vero e proprio, facendo ballare le persone completamente colte alla sprovvista, fino al dolce finale con poche parole dette a voce e il sipario che cala. Un’esperienza davvero memorabile per tutti quelli che ci sono stati.
 
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