Foto: Andrea Bianchera
Abbiamo già ampiamente raccontato quanto è successo sabato 23 settembre all’Ippodromo La Maura di Milano, nella prima delle due date secche di Marrageddon, il festival con cui Marracash ha voluto presentarsi nella fase finale della Champions League della musica italiana, quella degli stadi e dei grandi spazi outdoor, dopo il trionfale Persone Tour 2022 nei palasport (anche di questo abbiamo parlato a fondo a suo tempo). Dunque, in questo spazio ci vogliamo permettere qualche considerazione che va al di là del reportage e che vuole essere da un lato universale rispetto a ciò che questo evento ha generato nella geografia e nella gerarchia del music business italiano, e dall’altro, contemporaneamente, anche molto personale, per cui mi perdonerete se passo alla prima persona singolare, da qui in poi.
C’è una parola che mi viene spesso in mente quando penso a Marracash, ed è “generosità”. E so che è una parola anomala da associare alla sua figura, perlomeno non è la prima parola che a molti verrebbe in mente. Non mi pare, così a naso, che la parola “generosità” compaia mai nei testi della sua discografia, che non conosco a memoria ma che ascolto e frequento abbastanza assiduamente dall’inizio della sua carriera (se mi sbaglio, mi coriggerete, per citare Giovanni Paolo II). E anzi l’artista ha spesso narrato e sottolineato l’ego e l’egoismo, talvolta obbligato, di chi deve farcela e per farcela parte svantaggiato da condizioni ambientali nettamente sfavorevoli, perlomeno apparentemente (perché poi proprio quel deficit spesso dà una fame che mette il turbo). Eppure, la geneorsità per me è una chiave di lettura importante. Ed è una della ragioni per cui può esistere uno show enorme, muscoloso, ambizioso come Marrageddon. Marracash è per sua natura un giocatore solista, in campo per essere il numero 10, eppure si è sempre, costantemente caricato sulle spalle il peso della scena per darle luce, aprire spazi, fare squadra. Lo faceva nel momento in cui era parte della Dogo Gang, partecipando attivamente a molti dischi anche minori e mettendosi sempre al servizio della ballotta (nella quale pure non mancavano altri fuoriclasse e talenti: Gué e Jake, ma anche Don Joe, un outsider come Caneda, oltre agli altri). Lo faceva utilizzando il suo primo successo e la sua credibilità per aprire una label, Roccia Music, in cui ha creduto più lui di quanto avrebbe dovuto crederci chi da quell’idea una chance reale la stava ricevendo. Lo faceva quando ha chiuso il suo primo clamoroso sold out al Forum, nella sua città, letteralmente a quattro passi dal suo quartiere, dividendo il palco con l’amico di sempre, Gué, con un brano-manifesto come ‘∞ Love’ rinunciando a prendersi la scena tutta per sé ma volendo proprio dire “ce l’abbiamo fatta, da quei portici siamo diventati dei re e siamo qui insieme con questa canzone che lo racconta, eccoci”.
Foto: Nicola Braga
La continua spinta, la voglia di migliorare e migliorarsi, la smania di essere il numero uno ma di volere che questa musica, questa cultura, diventasse importante per davvero, non solo per i quattro scappati di casa appassionati che c’erano ai tempi in cui le serate hip hop erano nei bar o nei centri sociali ma per tutto il Paese, mi fa venire in mente Michael Jordan in una descrizione di Federico Buffa nelle sue celebri monografie, quando dice che Jordan si incazzava perché ci metteva tutto se stesso, tutto il suo strabordante talento, ma vedeva che il resto della squadra non aveva quel fuoco. In parte, è così: non è un caso che negli ultimi album di Marracash, più che dissing, siano presenti critiche insofferenti verso una scena che si rivela sempre più soltanto trampolino di visibilità per gente che in un baleno vira verso carriere da cantanti di hit latine da ombrellone o da personaggi social. Marra è uno che ci crede, e bastano versi come “la differenza è che tu vuoi ma io devo” o “vedo rapper manichini senza niente da dire, a me queste rime non mi fanno dormire” per dare una misura di quanto ci creda.
Così, la generosità diventa uno dei motori – magari inconsci, sia chiaro – che spingono a creare un vero e proprio festival, il primo di queste dimensioni per la musica e la cultura rap e hip hop nel nostro Paese, anziché un “semplice” concertone da stadio. E il primo festival davvero credibile, non cavalcato da opportunismi di sorta ma messo in piedi da uno che ha il pedigree per farlo seriamente. Perché Marrageddon è certamente un atto di supremazia e di autorità, ma anche un atto di grande stima verso i colleghi e di generosità, perché quando si vendono 84mila biglietti a Milano e oltre 55mila a Napoli e si portano tanti altri artisti sul palco, significa che c’è una volontà precisa di dare spazio a tutto un mondo. A una fetta precisa di quel mondo, anche a chi non può esserci “per i suoi problemi giudiziari, che gli auguri di risolvere nel migliore dei modi”, come Baby Gang, in remoto con un discorso che culmina con “fanculo la strada” che Marra ribadisce forte e chiaro. Un uomo che invita a non giudicare le vite degli altri e che sulla sua ha deciso di imprimere una direzione ben diversa da quella celebrata nei primi dischi, dove la strada era il posto dove si parlava di lealtà, fratellanza, codici d’onore. Un gesto di una maturità rara in un ambiente testosteronico, spesso oltre il limite dell’intelligenza.
Foto: Nicola Braga
Ecco, “maturità” è un’altra parola chiave, insieme a “generazione”. Marracash è sempre stato fortissimo, ma ha fatto un salto di qualità esagerato con ‘Persona’ perché ha avuto il coraggio di lasciarsi alle spalle numerosi cliché di genere e mettersi a nudo, raccontando a chi lo ascolta la solita sfrontatezza e qualità tecnica, di flow e di rime killer ma anche, e soprattutto le proprie insicurezze umane, le proprie vulnerabilità, i dubbi da quarantenne. Tutto materiale che non è mai esistito prima nel rap in Italia, ma quasi mai nemmeno nel pop, nel rock, nel cantautorato. Non è un caso che Marra stimi Vasco Rossi e che la stima sia ricambiata. Perché questi due hanno in comune proprio la capacità di frugare nella propria anima e di restituire i propri pensieri in forma universale, che crea immedesimazione ed empatia come nessun altro sa fare. In modo differente, ovvio, perché parte di generazioni diverse. Ma da quel momento in poi, Marracash si è caricato sulle spalle non solo la “sua” scena ma una generazione, la nostra, quella dei 40enni, a cui le possibilità sono state date per finta: tutti speciali, tutti bravi, tutti studiati ma con le paghe più basse, le porte perennemente socchiuse da chi occupa già i posti giusti, il mondo che cambia togliendo certezze professionali, umane, sentimentali. E questa generazione, in musica rappresentata perlopiù dai rapper (pensiamo anche a Salmo, Gué, Fibra, tra i big), all’inizio gli spazi proprio non li ha avuti. Troppo estremi, troppo di nicchia, troppo poco appetibili per le radio, per i giornali, per le TV.
La nostra è una generazione che il ricambio ha dovuto forzarlo a spallate, andando a suonare in ogni posto possibile, facendosi i video con gli amici videomaker a basso budget per auto-promuoversi su YouTube, sfruttando MySpace (e via via gli altri social nel tempo) e la capacità di fare network. Per questo 84mila persone a un festival rap io le associo alla parola “generazione”, non tanto tra gli spettatori, per fortuna molto trasversali in quanto a età, ma perlopiù per chi era sul palco e tra chi all’evento ha lavorato; sarebbe giusto citare tutti ma perlomeno due nomi vanno fatti, quello di Marz, sempre perfetto nell’interpretare con la musica le idee di Marra, e qui prezioso in fase di lavoro di lima sui pezzi, e Lorenzo De Pascalis con Ombra, un ragazzo che ho visto nascere professionalmente e che è davvero bello vedere al top delle produzioni internazionali come visual artist. E naturalmente, Paola Zukar, che nell’hip hop e con il rap lavora da quando era davvero solo una questione di passione, che non ha il vizio di mettere il pepe al culo alle carriere dei suoi artisti ma anzi ha saputo sempre costruire storie importanti con una visione a lungo termine. Un fatto sempre più raro.
La generazione che oggi ha 35/45 anni è arrivata, ci siamo, la cima della montagna non è più soltanto appannaggio di un mondo adulto e senior ma gli adulti siamo noi, e vedere un artista che in tantissimi modi rappresenta il meglio di questa generazione, per pensiero, talento, capacità di farcela e di rappresentare mondi e società anche molto diversi tra loro, è un momento simbolico fortissimo. Insomma, voleva essere una breve riflessione sui lati extra-artistici di ciò che abbiamo visto sabato in scena a Milano, è diventata una riflessione molto più lunga e articolata, spero non eccessivamente pesante. Non capita di frequente che il giornalismo, oggi, si prenda la briga di approfondire. Me ne assumo l’onere. Magari sbagliando prospettiva e valutazioni. Ma se parliamo della musica in Italia, del suo posizionamento, del mercato, sabato la nostra generazione si è presa il meritato posto al sole con il suo uomo più rappresentativo, portando una cultura – che è anche quella dei dj, ricordiamolo – a un momento apicale e tirando contemporaneamente una cordata di artisti più giovani a cui è stato dato uno spazio impensabile solo cinque, sei anni fa. E questa è storia.
“La mia generazione ha perso” cantava con ironico disincanto Giorgio Gaber anni fa. Oggi Marra potrebbe orgogliosamente cantare che la sua, la nostra generazione ha vinto.
27.09.2023